Non solo riciclo
Mercato - MU Sustainable Innovation
Economia circolare = riciclo?
E una definizione a cui si può essere inclini a aderire, in particolare se pensiamo al pacchetto approvato dal Parlamento europeo nell’aprile 2018 che fissa l’ obiettivo di destinare a riciclaggio il 65% dei rifiuti urbani entro il 2035 e del 70% dei rifiuti d'imballaggio entro il 2030.
In realtà l’economia circolare è molto di più.
E’ un approccio rivoluzionario che mette in discussione il modello economico “lineare” a cui l’economia del XX° secolo ci ha abituati, centrato sul consumo delle risorse e poco interessato all’uso efficiente delle risorse e alla programmazione della gestione del “fine vita” dei prodotti.
L’ approccio circolare stimola nuovi modelli di business, nuove filiere, nuove professionalità e competenze.
I principi dell’economia circolare attribuiscono alle imprese di produzione un ruolo importante.
I produttori possono applicare metodi più razionali di utilizzo delle risorse abbinando interesse economico e rispetto dell’ambiente selezionando i materiali in base a criteri di riutilizzabilità, rinnovabilità e rigenerazione, adottando tecnologie e modelli organizzativi che evitano sprechi e scarti, investendo in energie rinnovabili, stimolando la ricerca di soluzioni tecniche più sostenibili.
I produttori possono quindi essere un motore del cambiamento, un ruolo che nella filiera della moda le imprese stanno cominciando a interpretare con soluzioni interessanti.
Nella scelta dei materiali usati nelle collezioni si va estendendo la scelta di materiali e fibre rinnovabili e molti marchi, soprattutto dello sportswear, hanno assunto l’impegno a usare fibre man-made provenienti da processi di riciclo.
La durata di un capo nei guardaroba dei consumatori alla ricerca dell’ultima novità è andata diminuendo nel corso degli ultimi due decenni, ma oggi si intravede, negli stessi giovani che sono stati gli interpreti dell’usa e getta, una nuova sensibilità, e non mancano marchi che promuovano la riparazione del prodotto, il noleggio, il riuso.
L’impegno a non bruciare i capi invenduti, pratica diffusa tra i marchi, soprattutto di quelli “esclusivi”, è diventato vincolo di legge in Francia e assume un significato nuovo: perché “distruggere”, bruciandolo, ciò che è stato prodotto a costo di tanta energia e fatica?
Meglio progettare soluzioni che recuperino il valore economico dei materiali sviluppando nuove filiere produttive in grado di dargli una nuova vita.
E esagerato parlare di rivoluzione?
Certo si tratta di una scommessa che le imprese tessili non possono vincere da sole e il rischio di fare greenwashing è sempre in agguato.
Serve allora una filiera integrata tra fornitori e clienti e rafforzata dai produttori di tecnologie in grado di ridurre consumi e reflui, dall’industria della chimica green, dalla filiera del recupero e riciclo, dai laboratori per i test e la prototipazione, dai sistemi di certificazione.
E serve il supporto del mondo scientifico e della ricerca.
Gi stimoli vengono anche dalla cronaca di questi mesi difficili.
Possiamo immaginare una ripartenza post-coronavirus senza che questo tema sia affrontato, ad esempio per le mascherine monouso?
Un obiettivo è già sul tavolo, sollecitato dall’emergenza stessa e dall’aumento esponenziale dei rifiuti: è necessario realizzare mascherine e DPI in una logica di circolarità favorendone la durata e progettando la gestione a fine vita.
E poiché si parla di milioni di mascherine usate solo ogni mese solo nelle strutture sanitarie (escludendo cioè l’uso civile e professionale) il problema è tutt’altro che teorico.