Sostenibilità

La salvaguardia della biodiversità

Una nuova sfida per i marchi della moda

Il percorso della filiera della moda per ridurre l’impatto ambientale è progredito attraverso diverse tappe, dalla sicurezza chimica, alla lotta ai cambiementi climatici attraverso la riduzione della carbon footprint, alla adozione, per la vertà ancora limitata a pochi casi, dei modelli di produzione e consumo circolari, con l’attenzione soprattutto rivolta al riciclo dei materiali.

 

Un nuovo tema si sta ora affacciando nel panorama delle strategie dei marchi della moda: quello della biodiversità. Il termine biodiversità deriva dalla contrazione delle due parole inglesi “biological diversity”, coniato nel 1988 dall'entomologo americano Edward O. Wilson. Secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) la biodiversità può essere definita come “la ricchezza di vita sulla terra: i milioni di piante, animali e microrganismi, i geni che essi contengono, i complessi ecosistemi che essi costituiscono nella biosfera”.

 

Non si tratta, in realtà, di un tema completamente nuovo per la moda. Nella prima decade di questo secolo il tema è stato affrontato dai grandi brand internazionali del lusso e del beauty in relazione all’estinzione di specie animali per l’approvvigionamento di pelli esotiche, e di essenze vegetali rare per la produzione di cosmetici. Oggi però l’interesse per la biodiversità si va diffondendo ben oltre le due nicche delle pelli esotiche e del beauty e tocca tutta l’industria tessile, in relazione all’approvvigionamento dei materiali, ai processi di tintura e al rilascio di microplastiche.

 

Per quanto riguarda ad esempio il cotone, l’impatto sulla biodiversità deriva dall’uso intenso di insetticidi e pesticidi. La coltivazione del cotone rappresenta il 22,5% dell'uso mondiale di insetticidi, più di qualsiasi altra singola coltura, e il 10% di tutto l'uso di pesticidi (McKinsey, 2020).

 

Un altro esempio sono le fibre cellulosiche manmade, come la viscosa. Secondo un articolo pubblicato sul Guardian (2014), Canopy (2020) più di 150 milioni di alberi sono utilizzati ogni anno per la produzione fibre cellulosiche manmade e si stima che circa 50 milioni provengano da foreste primarie e in via di estinzione.

 

Infine non si può non ricordare il problema (ancora controverso) del rilascio delle microplastiche negli oceani che mette a rischio la vita degli organismi acquatici (ne abbiamo parlato qui ).

 

Mentre molto è stato scritto sull'impatto dell'industria della moda in materia di cambiamento climatico o di impatto delle sostanze chimiche pericolose sulla salute meno si è finora parlato di impatto sulla perdita di  biodiversità. Lo stesso  studio di McKinsey argomenta che l'industria della moda “contribuisce in modo significativo alla perdita di biodiversità. Le catene di approvvigionamento dell'abbigliamento sono direttamente collegate al degrado del suolo, alla conversione degli ecosistemi naturali e all'inquinamento dei corsi d'acqua”. Lo studio ci avverte anche che la biodiversità sta diminuendo a un ritmo più rapido che mai:  un milione di specie, tra il 12% e il 20% delle specie totali esistenti sono a rischio di estinzione.

 

C’è una spiegazione molto razionale dell’interesse della biodiversità e dell’importanza pratica di evitarne la riduzione: facciamo affidamento su di essa per la produzione di cibo, ne dipende la qualità dell'aria, la fornitura di acqua, la regolarità del clima.  Infine la stessa qualità dei terreni su cui si producono le fibre tessili dipende dalla conservazione della biodiversità.